Caterina Caselli deve molto, praticamente tutto, ad un modello di business basato sulla vendita di "pezzi di plastica". Tale modello di business l'ha catapultata dalle silicosi di Sassuolo alla ribalta canzonettista nazionale e, previo matrimonio con il suo titolare, Piero Sugar, l'ha proiettata ai vertici della direzione dell'impero editoriale della Sugar.
Quel modello di business, pesantemente basato sulla strenua difesa del copyright, è stato continuamente sostenuto da tutti i governi nazionali, ampliando a dismisura i diritti di produttori ed editori a scapito di quelli dei cittadini. Orbene, simili politiche hanno condotto alla desertificazione del mercato culturale; ben prima dell'esplosione di Internet, la rete distributiva italiana era ridotta in catalessi: 1500 librerie e 600 negozi di dischi; in altri termini: il 70% degli 8200 comuni italiani non ha un negozio di dischi o una libreria. E questi sono dati riferiti dalla stessa Caselli nel suo intervento ad un convegno tenutosi il 18 settembre 2004 a Verona, intitolato "Di chi è la musica nell'era digitale"?
Ora c'è da dire che la Caselli è una delle esponenti più in vista della lobby delle case discografiche che hanno maggiormente spinto per l'ampliamento dei privilegi per editori e produttori e che più si sono battute per l'introduzione di misure repressive verso i propri clienti. Un esempio per tutti, l'introduzione della galera per chi scambia musica via internet introdotta dal decreto Urbani ha avuto nella lobby capitanata dalla Caselli una delle principali ispiratrici.
Ma questo è solo l'ultimo dei tanti interventi a "tutela" del copyright: tutela che ha trasformato la fruizione delle opere dell'ingegno in un vero e proprio salasso a danno di tutta la comunità. A titolo d'esempio, se chiedete di fotocopiare una qualsiasi pagina di una vecchia rivista in una biblioteca, circa la metà del costo della fotocopia va agli editori (e non agli autori). E questo anche per opere di cui sono scaduti i diritti d'autore.
Ma non le basta. Dopo essere stata una delle principali responsabili della desertificazione della nostra industria culturale, la signora Sugar continua ad invocare il sostegno del governo, questa volta battendo cassa. Ecco come termina il suo intervento: "Per poter tassare dopo tanto, dovete aiutarci per intanto".
E non le basta ancora: "Senza la tutela del copyright c'è il deterioramento qualitativo dei prodotti della creatività, con un danno sostanziale per il benessere della società nel suo complesso", dichiara senza un minimo accenno di vergogna per il cascame culturale che stava ammannendo all'uditorio.
Beh, naturalmente la nostra cascame-d'oro si è guardata bene dal citare un vecchio calcoletto illustrato da Lawrence Lessig, inventore delle licenze Creative Commons: dei circa 10.000 libri editi nel 1934 negli States, solo 150 sono in commercio attualmente. Le altre 9850 opere sono state tolte dal mercato, non generano alcun genere di profitto. E nonostante questo, ne è impedita la circolazione, sono proibite per il pubblico. Il mercato culturale che la Caselli rappresenta preferisce mandarle al macero piuttosto che consentirne l'accesso. Immagino che sia questo il "benessere della società nel suo complesso" di cui parla la Caselli, professione: discografica ed editrice.
Ma la ex cantante Caselli avrebbe potuto raccontare un po' la storia dell'industria musicale e dei rapporti intercorsi nel corso degli anni tra l'editoria musicale e le case discografiche. Di come, per decenni gli editori di musica hanno guardato con disprezzo i discografici, trattandoli come venditori di elettrodomestici. E di come, alla fine, l'industria discografica abbia inghiottito l'editoria musicale. Una storia illuminante su come le nuove tecnologie ristrutturano le modalità con cui si fa profitto. Le accuse erano le solite: offrire musica gratis e distruggere l'editoria, la discografia e lo show business. Solo che all'epoca tali accuse erano rivolte alla radio!
Invece ha preferito citare lo stato comatoso della nostra distribuzione e subito dopo citare la capillarità della pirateria (cioè lo scambio di musica via internet), invitando ad una associazione tanto meccanica quanto disonesta. Senza citare che il consumo di musica registrata in Italia è comatoso da decenni, ben prima che internet si diffondesse. Ma sopratutto, senza citare uno studio statunitense che ha dimostrato che l'effetto "musica gratis" della programmazione radiofonica in heavy rotation è di gran lunga superiore a tutti gli scambi di file su internet: il dilagare delle Top40 in tutte le radio, l'accesso quotidiano ai titoli più pompati dai discografici rende inutile l'acquisto del disco. Oltre a vanificare la possibilità di far conoscere altri brani, magari più interessanti di quelli in heavy rotation.
Chi fa profitti in questo scenario sono le industrie delle telecomunicazioni e dell'informatica che lucrano sul desiderio di accedere ai contenuti da parte dei consumatori. Ma nessuno sembra capirlo, e continuano a prendersela con i consumatori che "scaricano gratis", come se computer, masterizzatori, supporti vergini, connettività e quant'altro non costassero. Finirà come è ovvio che finisca per il bene di tutti: che l'industria che ha ristrutturato i canali del profitto inghiottirà quella che è rimasta ancorata ad un vecchio modello.
In altri termini, cosa si aspetta a reindirizzare i profitti dell'industria informatica e delle comunicazioni ai detentori del copyright? Ed evitando di criminalizzare i consumatori che già pagano il dovuto su tasse e balzelli vari?
Certo, i detentori dei copyright devono ristrutturare e forse ridimensionare i loro esorbitanti profitti. Ma se fossero disposti a farlo forse non titoleremmo gli articoli di questa serie "il club degli avidi".
Articolo precedente della serie: Il club degli avidi: Tiziano Ferro
13 marzo 2006
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