Riporto qui sotto un mio articolo pubblicato su Punto Informatico di ieri.
"Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire 'questo è mio' e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli fu il vero fondatore della società civile.
Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i pioli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: 'Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!'"
Così scriveva Jean-Jacques Rousseau nel 1755 nel suo "Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza fra gli uomini", sollecitato dalla Accademia di Digione che nel 1745 aveva posto il tema: "quale sia l'origine della disuguaglianza fra gli uomini e se sia fondata sulla legge naturale". Beh, certo, erano temi squisitamente politici, adatti ad un ristretto circolo di intellettuali.
Ai giorni nostri, un dibattito simile sta avvenendo riguardo ad un altro tipo di proprietà, quella intellettuale. Quotidianamente assistiamo a "recinzioni" di diverso genere: qualcuno prende pezzi di sapere che non sono di nessuno e dice 'questo è mio'. Insieme a Rousseau, siamo curiosi di sapere se vi sono ancora persone abbastanza stupide da credergli. Solo per i citare i casi più famosi: brevettazione della barra di scorrimento, dei link ipertestuali, del clic e del doppio clic, e di altre amenità (qui sono elencate alcune cose curiose che alcune aziende stanno tentando di togliere dal pubblico dominio e di far proprie). Ma non è sola l'informatica ad essere terra di conquista: a chi appartiene il genoma umano? Di chi è la musica che si sta ascoltando sul proprio player? Di chi è il computer dal quale sto scrivendo? E di chi è quel video trasmesso dalla TV di Stato nel 1954 ed interamente finanziato dai contribuenti?
Beh, certo, sono temi squisitamente politici, adatti ad un ristretto circolo di addetti ai lavori. Solo che le conseguenze degli esiti della discussione intellettuale si traducono in sistemi economici, in leggi, in regole che finiscono per determinare le condizioni esistenziali di chiunque, anche di quelli che non hanno partecipato al dibattito, e forse neanche sanno che un tale dibattito è in atto. Già, perchè esiste una vasta corrente di pensiero che continua a ritenere che di politica non occorre occuparsi. E questa corrente di pensiero sembra particolarmente diffusa tra i tecnici informatici che così facendo difendono e sono fieri della loro "obiettività".
L'immediata, curiosa, deduzione che si ricava da un simile atteggiamento è che tali tecnici "apolitici" ritengono del tutto naturale che a normare le cose inerenti la proprietà intellettuale - inestricabilmente intrise di sofisticati concetti scientifici e tecnologici - debbano essere i "politici". Inviterei ad una banale riflessione: passate in rassegna tutti i politici di vostra conoscenza e scrivete da qualche parte l'elenco di quanti sono in grado di legiferare con cognizione di causa sui concetti tecnico-scientifici legati alla proprietà intellettuale. Beh, immagino che la superficie di un francobollo sia ampiamente sufficiente.
Temi squisitamente politici, dicevamo. Già, solo che di questi temi squisitamente politici i politici non ne parlano. Provate a cercare qualcosa a riguardo tra i temi in primo piano dei programmi elettorali dei due schieramenti, o in qualcuno delle centinaia di dibattiti politici televisivi. Niente. Il nulla assoluto. Però se andate a scartabellare tra gli atti parlamentari, di provvedimenti sulla proprietà intellettuale ne trovate a centinaia. La famigerata Legge 22 aprile 1941, n. 633 sulla "Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio" è forse la legge che è stata maggiormente emendata di tutta la storia dello Stato italiano. E sempre a senso unico: ampliando i diritti di autori/editori/produttori e restringendo sempre più quelli di cittadini/consumatori.
Ma se i politici non sanno e non si interessano di proprietà intellettuale, chi le scrive le leggi ad essa relative? Sorpresa (ma mica tanto): i tecnocrati legati a precisi interessi di parte. So di dare una delusione ai tecnici apolitici, ma le leggi, cui anche loro devono sottostare, in realtà vengono scritte da tecnici apolitici, e per di più di di parte. Attraverso un meccanismo tanto diabolico quanto perfetto. Quello che passa attraverso i trattati sovranazionali. I processi di globalizzazione in atto hanno fatto sì che l'intera tematica legata alla proprietà intellettuale sia disciplinata da organismi quali il WIPO (World Intellectual Property Organization), noto anche come OMPI (Organizzazione Mondiale Proprietà Intellettuale, in italiano). Tutto ciò che viene deciso all'interno di tali organismi, dovrà essere prima o poi recepito nella legislazione nazionale. L'aticipità di tale meccanismo è che i funzionari di tali organismi non hanno alcuna investitura rappresentativa: insomma, vengono nominati e non eletti. Va da sè che la pressione delle varie lobby con interessi da difendere si concentra a livello di WIPO, prima ancora che a livello di singolo parlamento nazionale.
L'effetto combinato di politici tecnicamente ignoranti oltre che distratti e di tecnici distratti oltre che politicamente ignoranti è devastante. Ecco un piccolo florilegio delle mostruosità prodotte dalla nostra legislazione in materia di tecnologia:
- l'art. 615/ter del Codice Penale punisce "chiunque abusivamente si introduce in un sistema informatico o telematico protetto da adeguate misure di sicurezza, ovvero vi si mantiene contro la volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, è punito con la reclusione fino a tre anni". Ma cos'è la volontà "tacita"? E cosa sono le misure "adeguate"?
- l'art. 616 punisce "chiunque prenda cognizione del contenuto di corrispondenza chiusa a lui non diretta". Una e-mail non cripata è chiusa?
- il decreto 7 febbraio 2006/4249/GIOCHI/UD grazie a cui sono stati censurati i siti di scommesse online, che implica l'affermazione del principio che "è tutto vietato tranne ciò che è ammesso";
- il decreto Pisanu (Pacchetto sulla sicurezza), in nome della lotta al terrorismo, obbliga i fornitori di connettività alla conservazione obbligatoria dei dati di "traffico telematico", mettendoci tutti sotto sorveglianza;
La citata legge 633 è una miniera di mostrosuità:
- tassa sui supporti vergini per poter effettuare la copia privata, impedita di fatto dai dispositivi DRM che ne impediscono la copia; tale tassa va comunque pagata anche se su CD e DVD vengono depositate le foto delle vacanze;
- le modifiche introdotte dal decreto Urbani che equiparano lo scambio di file via internet alla pirateria commerciale;
- vessazioni e pene pecuniare spropositate anche solo per aver scaricato un frammento di un'opera protetta da copyright;
- rischi per i webmaster per la semplice esposizione di link ad opere protette da copyright, con la conseguente uccisione dello strumento primario su cui si fonda il web;
- la Legge 15 aprile 2004, n.106 obbliga tutti i titolari di siti a depositarne una copia presso le Biblioteche Nazionali di Roma e Firenze: mostrosuità tecnologica che, se attuata, farebbe soccombere i due istituti;
e via farneticando: l'elenco delle leggi con riflessi sulla tecnologia è lunghissimo e ben noto ai lettori di queste pagine.
Come si diceva, quello che sta succedendo è sì colpa della ignavia e della scarsa competenza tecnica dei leglislatori, ma anche dalla scarsa voglia dei tecnici di "occuparsi di politica" in senso ampio (che non vuol dire tifare per questo o quello). Voi che leggete queste pagine siete i tecnici. E siete corresponsabili di quanto sta succedendo. Perchè non ve ne interessate. Perchè non fate pressione. Perchè siete incapaci di fare lobby per difendere i vostri interessi. Perchè non parlate presso i vostri rappresentanti politici e non fate loro capire il problema. Perchè non avete rappresentanti politici. Ed infine perchè, sebbene esperti di network, siete incapaci di fare networking. Cioè di utilizzare la rete per aggregarvi, per organizzarvi e difendere i vostri interessi. Sarebbe ora di iniziare a farlo. A partire dalle prossime elezioni politiche.
15 marzo 2006
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5 commenti:
...che dire... mea culpa... mea maxima culpa.... ti do ragione Daniele.
HJack
Ciao HJack! :-)
Ma noi ...non ci siamo visti di recente? ;-)
L'articolo di Michele, come spesso accade, mette il dito nella piaga, pur se con qualche "licenza" che io poco condivido. Ma sono davvero dettagli che non mutano la sostanza.
Tanto per animare un po' il blog, dissento sulla citazione iniziale dal "Discorso sull'origine della diseguaglianza", giacché tutto il discorso di Rousseau si muoveva provocatoriamente attorno all'uomo allo stato di natura (ipotizzato non come esistente, ma come astrazione metodologica). Il senso della citazione, posta all'inizio del discorso di Michele, rischia di essere frainteso e di diventare un inno all'abolizione della proprietà privata.
Non starò qui a giudicare se la prospettiva sia più o meno desiderabile e lascio al lettore la decisione sul punto.
Mi preme invece osservare che il punto di vista "dominicale" ha poco a che vedere con le privative industriali e con il diritto d'autore. Benché la suggestione sia forte - e proprio per questo si parla correntemente di proprietà intellettuale - le privative intellettuali non sono in alcun modo forme di proprietà.
La proprietà, infatti, si esercita esclusivamente su cose (cioè su frammenti di realtà materiale) che non potrebbero essere contemporaneamente ed utilmente sfruttate da più persone in conflitto tra loro. Tanto è vero che le cose di cui c'è sovrabbondanza sono considerate res communes omnium (cioè di tutti). A nessuno verrebbe in mente di appropriarsi di un fazzoletto di mare o di un cubo di atmosfera!
La logica della cosiddetta proprietà intellettuale è tutt'altra. Nessuno dubita, ad esempio, che, acquistando un CD audio, l'acquirente divenga proprietario dello stesso CD; il problema è che il proprietario del CD non può appropriarsi della musica in esso contenuta. Meglio: non può sfruttare economicamente quella musica.
Pertanto, più che una proprietà (che, abbiamo visto, è tutt'altro), la privativa industriale attribuisce al titolare un monopolio di sfruttamento economico.
Giacché i monopoli sono una deroga al normale regime di concorrenza, il problema da prenedere in esame - a mio modestissimo parere - è non se sia più o meno giusto appropriarsi dei cosiddetti beni immateriali, ma se il monopolio che su di essi viene costituisto con la privativa indutriale non sia eccessivamente pervasivo, tanto da distruggere i benefici del gioco della concorrenza.
Spero di essere stato chiaro. Ho scritto al volo e non ho riletto. Perdonatemi.
Caro Gianluca,
sai bene che il mio background culturale è quello di "TV Sorrisi e Canzoni" quindi non puoi attenderti dai miei scritti un livello di erudizione pari al tuo...
Tuttavia ciò non mi esime questa volta dal dissentire sensibilmente dalla tua impostazione che, tagliata con la mia solita accetta, è: la proprietà intellettuale non è una proprietà vera e propria ma solo una sorta di monopolio allo sfrtuttamento industriale concesso all'autore.
La cosa mi sembra un tantino più incasinata perchè, davvero, riesco a vedere poco lo sfruttamento industriale in decine di migliaia di opere mandate al macero dalla attuale normativa. Ma sopratutto, l'effetto combinato di DRM, TCP e norme a loro tutela stanno stravolgendo la stessa nozione di proprietà. Sarà pur vero che il pezzo di plastica su cui sono incise le musiche è mio, ma se questo si rifiuta di "suonare" a causa delle regole incluse in qualche tipo di DRM, dire che è mio è una espressione perfettamente priva di significato. L'interpretazione più trendy del copyright, portata avanti dalle major, è che i diritti dei clienti sono solo quelli che il produttore gli concede. Quindi, se il produttore imposta i DRM per consentire l'ascolto di un CD solo nei giorni pari, l'acquirente può ascoltarlo solo nei giorni pari. E cose così.
Ciò detto devo però dire che il titolo dell'articolo forse non è il più indovinato in quanto mette in evidenza solo una delle due tematiche trattate. L'altra tratta della "ignavia" imperversante, sopratutto dei "tecnici informatici" che, pur essendo tra coloro maggiormente in grado di comprendere le nefandezze che si stanno commettendo, sembrano incapaci di difendere i propri interessi. Anzi, con la loro "apoliticità" sembrano avallare le scelte governative completamente appiattite a difesa di produttori ed editori e contro la cittadinanza.
Ed è forse questa seconda tematica che ha fatto cospargere di cenere il capo del buon HJack...
1 abbraccio
Carissimo Chartitalia,
Tu perché pensi che io, prima di illustrare (molto frettolosamente) la mia posizione, abbia scritto "tanto per animare un po' il blog"? :-)
Più o meno so come la pensi. E so pure che il tuo background non è quello che, modestamente, vuoi farci credere.
Premesso ciò, resta (ma lo sapevamo, mica ne parliamo oggi per la prima volta) questa differenza di impostazione tra noi due. Bada bene che le differenze di dettaglio non mutano la sostanziale identità di pensiero sulla nocività degli effetti pervasivi dei monopoli/domini culturali (diritti d'autore e diritti connessi) ed industriali (brevetti per invenzione industriale ed altre analoghe privative).
Benché sia pienamente consapevole che anche larga parte della dottrina giuridica - e non certo la meno qualificata - si esprima in termini di proprietà quando parla dei diritti sui beni immateriali, è mia fermissima opinione che ciò sia il portato di una impostazione ideologica e non scientifica. Perché - pur prescindendo dall'utilizzo che se ne possa in concreto fare - è incontestabile che se io acquisto un disco io ne divento l'unico proprietario. E, allora, come può esserne, contemporaneamente, proprietario anche l'autore della musica incisa in quel disco?
La risposta che i teorici della "proprietà intellettuale" utilizzano è la seguente: sono diritti dominicali su oggetti diversi. Giusto. Peccato che la il legislatore non la pensi esattamente così, visto che l'art. 832 del cod. civ. afferma che il proprietario ha il "diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo"; e - per prevenire una risposta tipo: è una svista del legislatore - giova sottolineare che, ancor prima, l'art. 810 dello stesso codice ha scolpito la nozione di beni come "le cose che possono formare oggetto di diritti". Ora, detto francamente, una poesia o una canzone a me non sembrano "cose"; così come non mi sembra una "cosa" un'invenzione industriale.
E' sempre il legislatore, mi sembra, a confermare l'assunto, laddove definisce il contenuto del diritto d'autore e del brevetto. Quanto al primo, infatti, l'art. 2577 del cod. civ. dispone che "l'autore ha il diritto esclusivo di pubblicare l'opera e di utilizzarla economicamente in ogni forma e modo"; quanto ai brevetti, l'art. 2584 cod. civ. proclama che "chi ha ottenuto un brevetto per un'invenzione industriale ha il diritto esclusivo di attuare l'invenzione e di disporne entro i limiti e alle condizioni stabilite dalla legge", chiarendo altresì che "il diritto si estende anche al commercio del prodotto a cui l'invenzione si riferisce". Quest'ultima precisazione, sempre a mio modestissimo giudizio, chiarisce che il titolare del brevetto ha un monopolio nel commercio del prodotto (probabilmente una "cosa") ma non è proprietario del prodotto (tanto è vero che lo commercia, cioè lo vende ad altri, i quali non per il solo fatto di aver acquistato il prodotto lo possono a loro volta riprodurre industrialmente).
Tutto ciò detto - spero nella maniera meno noiosa e pedante possibile - io ritengo che non sia la proprietà il problema, ma solo il limite (di carattere monopolistico) alla libera iniziativa individuale ed il divieto di sfruttamento del bene immateriale.
Ritengo sacrosanto riconoscere la paternità dell'opera ed i benefici economici del suo successo commerciale all'autore; mi sembra un controsenso impedire il libero utilizzo dell'opera (sempre nei limiti del rispetto della stessa, s'intende) per settanta anni dopo la morte dell'autore. Ma, lo ripeto e lo ribasisco, il problema non è la proprietà, è il monopolio.
Cerco, ora, di chiarire quali ricadute - anche di ordine ideologico e politico - possono insidiosamente nascondersi dietro le illustrate divergenze tecniche tra chi consideri il diritto d'autore una proprietà e chi lo consideri un monopolio.
I primi, laddove cerchino di modificare le storture dovute al diritto d'autore, mireranno all'esproprio o alla collettivizzazione dei beni immateriali. E finiranno per essere additati come "comunisti" (ogni allusione al presidente Berlusconi è puramente intenzionale) e come eversori. Non raccoglieranno le simpatie dei liberali per davvero e saranno tacciati di disfattismo dal mondo dell'impresa.
L'adozione dell'approccio opposto - diritti sui beni immateriali come monopoli - consentirà di impostare la critica al diritto d'autore sotto il profilo degli effetti anticoncorrenziali. La libertà del mercato (attenzione: non l'arbitrio del mercato o la tirannia del mercato) è minacciata dalle conseguenze distorsive della concorrenza generate dal monopolio d'autore. Il fronte degli oppositori non del diritto d'autore in quanto tale, ma della sua ipertrofica ampiezza (meglio: della sua pervasività), diverrà progressivamente più esteso e agirà in nome della libertà (del mercato, di iniziativa economica, di pensiero, di divulgazione e di formazione culturale, ecc.).
Pertanto, il presentare le storture della cosiddetta proprietà intellettuale come anomalie legate alla proprietà significa fare il gioco dei monopolisti (ad esempio le majors del cinema e della musica e le case famaceutiche), i quali potranno sempre parlare di furto (anzi, di pirateria) ai danni della proprietà e di tentativo di esproprio ai danni della creatività.
Nel ricambiare l'abbraccio, spero di non avervi fatto addormentare.
Ok Gianluca,
ricevuto: forte e chiaro. E non posso che essere d'accordo.
Vedrò di tenerlo a mente e di parlare meno di proprietà e più di monopolio.
1 ri-abbraccio
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