Martedì sera era la sera del "grande confronto" televisivo tra i leader delle due coalizioni politiche che si affronteranno alle prossime elezioni: quale migliore occasione per andare a cinema, visto che era anche pianificato il cineforum settimanale.
Il film in programma questa settimana era In the cut della celebrata regista neozelandese, Jane Campion: fiducia a scatola chiusa, considerando il prestigio autoriale di cui gode. Inizia il film e dopo 3/4 minuti una sensazione di deja vu inizia a pervadermi. Sino alla scena clou introduttiva (il rapporto orale in uno scantinato del locale tra il serial killer e la sua prima vittima) dove non ho più dubbi. In realtà il film l'avevo già visto, probabilmente su DVD qualche tempo prima, ma evidentemente rimosso considerata la mediocrità dell'opera.
Perchè mediocre? Perchè la regista non ha il coraggio radicale di abbracciare gli stilemi del film di genere (il thriller, nel caso specifico), e nè ha il coraggio di fare un film pienamente autoriale, così come ci aveva abituato nei film precedenti (ad es: Un angelo alla mia tavola o il celeberrimo Lezioni di piano). Ciò che resta di questa doppia indecisione è una doppia dose di stereotipi piuttosto noiosi: i luoghi comuni del serial killer ed altre convenzioni sull'universo femminile della protagonista: una Meg Ryan che tenta la grande prova ma che risulta piuttosto spaesata senza le sue mossettine un po' leziose. Insomma, ancora una volta sembra che l'aria di Hollywood sia ormai letale per chiunque si avvicini. E, tra l'altro, sembra che la regista non si sia neanche giovata dei tradizionali grandi mezzi produttivi: cinepresa a mano e riprese approssimative (addirittura sciatte, considerando che in troppe inquadrature faceva capolino dall'alto la giraffa con appeso il microfono per la presa diretta dell'audio).
Le atmosfere fosche, torve, squallide abbondano per tutto il film, così come le scene di sesso, tanto frequenti quanto gratuite e per niente sensuali. Lo sbadiglio è sempre in agguato. Per non dire dei personaggi che costellano il film: quasi tutti irrisolti, poco ficcanti, dimenticabili.
C'è forse una sola grande scena: quella topica verso la fine del film, con il serial killer che conduce la protagonista all'interno del Little Red Lighthouse a Manahttan, un vecchio faro rosso che in realtà rappresenta un enorme simbolo fallico ai piedi del gigantesco Washington Bridge sull'Hudson River. Scena in cui la protagonista scopre di essere preda del serial killer che la costringe ad un ballo grottesco sulle note di The Look of Love di Burt Bacharach, cantata da Dusty Springfield. Beh, pochi minuti di grande cinema su 1h e mezza forse non sono sufficienti a riscattare un film non riuscito.
Ah, come con tutti i cineforum che si rispettino, immancabile il dibattito finale dove il curatore della rassegna, il buon Marco Invernizzi, ha cercato di convincere l'uditorio delle qualità eccelse dell'opera ma credo con scarso successo. Più o meno ogni autore ha i suoi flop. Bisognerebbe riconoscere che In the Cut è quello della Campion.
Articolo precedente della serie: Un'ora sola ti vorrei (il film)
16 marzo 2006
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